C’era una volta l’oratorio

Siamo i primi a dire che il mondo va avanti e che bisogna stare al passo coi tempi, tuttavia non ci dimentichiamo del passato cercando di prendere il meglio di quello che ci ha dato.

Per la serie “Non solo calcio”, oggi vogliamo proporre un articolo liberamente estratto da https://www.avvenire.it/agora/pagine/i-campioni-nati-in-oratorio

«Sembra quand’ero all’oratorio, con tanto sole, tanti anni fa. ..», cantava un nostalgico Adriano Celentano in un pomeriggio troppo azzurro e lungo, senza un amico con il quale tirare quattro calci ad un pallone, lì nel campetto polveroso dell’oratorio della via Gluck. Ma, in coro, da allora gli sono andati dietro intere generazioni che, pallone ai piedi, nei campetti di periferia hanno trascorso i pomeriggi meravigliosamente più lunghi dell’adolescenza. È storicamente provato che il calcio italiano è figlio della tradizione oratoriale. Non c’è oratorio d’Italia in cui, almeno fino agli anni ’90, non abbia mosso i primi passi un campione. Poi un buco, specie negli oratori di città, svuotati dalla grande corsa ai campi organizzati e dal dazio delle rette mensili da versare alle illusorie scuole-calcio, ostaggio dei milioni di euro che rimbalzano oltraggiosi e prepotenti sulle zolle sintetiche del professionismo.

In questi campi sono nati i campioni, la stella di Gianni Rivera. Il “Golden boy”, l’“Abatino” di Gianni Brera, per via di quelle origini oratoriali. “Ho cominciato a giocare all’oratorio salesiano di Alessandria. ..” Lo stesso habitat in cui, a Mantova, è maturato il suo compagno di nazionale, Roberto Boninsegna detto “Bonimba”. «I miei primi derby non li ho mica giocati a Milano o a Torino, ma sul campetto in cemento in riva al Lago di Sotto. Erano le sfide tra il mio Sant’Egidio e gli Aquilotti». Piccoli miracoli che a volte conducono persino alla conquista di un Mondiale.

Quello di Spagna ’82. Trionfo azzurro eternato nell’urlo post-munchiano di Marco Tardelli dopo il gol in finale alla Germania. «Ho cominciato da bambino, a Pisa, con le partitelle a sette, al campetto in terra battuta. Mi chiamavano “fil di ferro” per quanto ero magro. Il momento più bello in quegli anni fu quando costruimmo il campo di calcio insieme. Adesso invece i genitori ti prendono a sberle se non giochi e diventi un campione ricco e affermato…».

Segno dei tempi. l’ex portiere Francesco Toldo, partito attaccante “alla Gigi Riva” all’oratorio di Caselle di Verrazzano (Padova) e finito a difendere i pali della nazionale. Toldo aveva come compagno di squadra Demetrio Albertini (ora vicepresidente della Federcalcio), ennesimo esempio di campione nato e cresciuto sui campi polverosi.

Del resto, Borges ce l’aveva detto: «Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio».

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